Monday, November 29, 2010

Up the Alley: prima parte

Sandra DiAngelo Sutphin è la figlia maggiore del figlio maggiore di Umberto, cioè Sam. Per questa ragione è a conoscenza di tanti aneddoti ed episodi che riguardano la sua famiglia e di cui ha voluto farci partecipi consegnandoci di persona, in occasione della sua visita in Italia, gli scritti che seguono. Essi trattano di sua nonna Irene, e sono scritti in un bello stile letterario probabilmente da lei acquisito lungo il duro percorso di recupero interiore conseguente a un grave lutto famigliare: la morte della figlia Mia, infermiera volontaria in un orfanotrofio del Kenya (per chi volesse saperne di più http://www.miasutphinmf.org/ ).Sandra è riuscita a riemergere dal vortice della depressione in cui era caduta e oggi dice di sentirsi una persona migliore, e dev'esserci qualcosa di vero in ciò che dice, perché abbiamo vissuto dei bei giorni insieme al punto che quando se n'è andata ne sentivamo la mancanza. Abbiamo cercato di assolvere nel migliore dei modi il compito assegnatoci, attenendoci fedelmente, per quanto possibile, al testo in inglese, che chi lo volesse potrà richiedere direttamente all'autrice. Chiediamo scusa da subito per gli errori di cui non siamo a conoscenza poiché troppo poco esperti della lingua inglese. Ma del resto non eravamo esperti nemmeno di ricerche genealogiche...

Lungo il viale
di Sandra DiAngelo Sutphin

Se potessi definire la mia infanzia con un ricordo, esso sarebbe l'andare fino al viale che portava a casa di Nonna.
Me ne stavo in silenzio, assorta nei miei pensieri, con lo sguardo fisso alla bara che conteneva un piccolo pezzo di me. Rosie Pilli (N.d.T. Moglie del fratello di Irene Pilli) oggi ci ha lasciato, portando via con sè quell'ultimo fragile anello di congiunzione a un'era che non vedremo mai più...
I ricordi scrosciavano su di me, come la pioggia che mi cadeva addosso, e io m'inzuppavo di essi.
Decisi che dovevo andare a vedere la tomba di mia Nonna. Cercai il luogo dove la lasciammo ormai più di trent'anni fa, ben protetta e incastonata in mezzo ai suoi due amati mariti, che la lasciarono sola, a crescere sei bimbi affamati. Finché non ebbe requie.
Non riesco a trovare il luogo esatto. Passo minuti che sembrano ore a girarci intorno. E mentre ero là, con la pioggia che lavava via le mie lacrime, capii che non dovevo mai più cercare la sua tomba, o sognare di arrivare fino a quel viale per vederla una volta ancora. Io sapevo dov'era.
Lei è nel mio sangue, nel mio respiro e nel mio cuore per sempre.
Mia Nonna visse al numero 322 di South Ellamond Street a Baltimora City. La sua casa era grande. Originariamente era di un blu intenso finché non fu coperta da un verde leggero di licheni. Si trovava dall'altra parte della strada su di un banco di sabbia che portava giù ai binari della ferrovia. La casa era costruita come un telescopio. Era lunga ed era profonda quanto una stanza, e da ciascuna stanza si accedeva alla successiva. Quattro porte conducevano al suo interno. La porta sul fronte non fu mai usata ch'io sappia poiché da essa si accedeva direttamente alla camera da letto della nonna. Nemmeno la porta sul retro lo fu mai, poiché essa accedeva alla stanza da letto che veniva usata da qualcuno dei tanti pensionanti. La sola porta da cui era consentito entrare era quella sul lato. Essa conduceva direttamente nella cucina. La cucina, la stanza più importante di tutti. Era là che mia nonna teneva corte e governava con il pugno di ferro.
La casa aveva un porticato sul fronte sul quale difficilmente ci si poteva sedere, a eccezione di noi bimbi. Avremmo potuto rifugiarci là per sfuggire l'occhio d'aquila degli adulti. Ricordo che sedevamo là io e Kathy, Jeanette, John, Vince e Tony. Tutti vestiti, molto scomodamente, nei nuovi abiti di marca per la Pasqua. Non ho mai compreso per quale ragione, quando veniva la Pasqua, noi dovevamo essere tutti agghindati, dalla testa agli alluci, con capi di abbigliamento di Goldbergs o di Epsteins. Scarpe di vernice, calze di nylon calate su gambe magre come stecchini, le cinture in crescenza sulle gonne strette e le giacche corte. Guanti di cotone bianco che toglievano il respiro alle mani e infine i cappelli che ci mettevano in imbarazzo perchè non volevano stare in nessun posto sulle nostre teste. Forse a causa delle migliaia di riccioli infilati dentro. Io posso ancora ricordare che per stare alla larga dal tanfo della lozione casalinga per l'acconciatura, il cappello era un “passo obbligato” per la Pasqua. Sono sicura che i ragazzi stessero scomodi, ma almeno non dovevano sopportare l'umiliazione di avere un milione di riccioli puzzolenti avvolti strettamente sulle loro teste.
Un marciapiede correva sul fianco della casa. C'era un cancello che dava al passeggio. Alla sinistra del marciapiede c'era la casa e sulla destra c'era un largo recinto chiuso con una catena che conteneva un giardino. Lungo un lato del giardino recintato c'era una linea perfetta di alberi di pesche. Messa lì non dalla grande mano di Dio, ma dalle mani di tutti noi che lanciavamo i noccioli oltre il recinto. Essi misero le radici e avemmo le pesche più squisite e la linea di alberi più perfetta che si potesse avere, grazie alla nostra buona mira.
Oltre gli alberi di pesche c'era il giardino, coltivato, zappato e conquistato da Sam e da chiunque altro egli poté schiavizzare con un forcone. Non ho mai saputo cosa ci facessero con le migliaia di pomodori e fagioli estorti alla terra sotto la minaccia affilata di Sam (N.d.T. Nel testo “shear fear” è un gioco di parole, “sheer fear” significa “pura paura” mentre “shear” vuol dire tagliare). Penso che alcuni finissero nella salsa della nonna. Ma sospetto che un bel po' finissero in faccia al malcapitato che avesse la sfortuna di cadere in un'imboscata di Sam.
Sul retro del giardino c'era un'enorme albero di pere che sembrava quasi reclamare la mia vita ogni qualvolta uno zio decideva di aver bisogno di una pera. Dal momento che ero piccina e non pesavo quasi niente, io potevo facilmente essere sollevata su quella montagna d'albero, alta mille piedi. Se la memoria non m'inganna, sono sicura di essere caduta da quell'albero ogni qualvolta mi ci issarono sopra.
Ora veniamo agli alberi di fichi. Avrei voluto salirci sopra felicemente e non ne sarei discesa fino a che non avessi mangiato ogni succulento fico arso dal sole di quella pianta. C'era anche un albero di prugne, ma il solo ricordo che ne ho è quello di un mucchio di prugne in fermentazione sparse sul terreno. La nonna aveva anche un pollaio che era pieno di polli. Si trovava dietro la casa sulla sinistra del giardino. I polli venivano trattati come ospiti speciali. Potevano sapere di essere proprio loro la cena? Quando non si facevano vedere allora nonna doveva andare a prenderli, il che implicava che avrebbe tirato loro il collo (per questo motivo non dovette mai chiedermelo due volte di venire a cena).
Di fronte al pollaio (bastava scappasse una parola a proposito della cena per far volare i polli fuori dal pollaio) viveva Teddy nella sua cuccia. Era un grande cane giallo che sembrava un orsacchiotto di peluche. Furbo come una volpe e gentile come una brezza leggera. La nonna lo lasciava andare a far visita a chi volesse perché lui sapeva sempre quando era ora di tornare a casa. La stessa cosa non riuscì mai a insegnarla ai suoi sei piccoli selvaggi.
Era così furbo che sarebbe potuto andare giù per la collina fino alla Frederick Avenue, la strada principale, che era pesantemente percorsa da automobili, cavalli, carrozze e tramvai. Un trambusto da incubo per tutto il giorno.


Teddy avrebbe potuto starsene su di un lato della strada ad aspettare e guardare, sempre in tutte e due le direzioni, fino a trovare una breccia in quel caos. Allora sarebbe stato capace di andare avanti e indietro attraverso quella strada. Non aveva nessuno scopo nel fare questo, se non quello di dimostrare che ne era capace. Non mi piace pensare che ci fosse qualcuno pronto a scommettere su di lui qualora si fosse spiaccicato in una delle sue traversate. Se davvero ci scommisero sopra, certamente non vinsero mai. Teddy sapeva di avere un dono che nessun altro cane aveva, e penso che ciò lo rendesse anche un po' presuntuoso.
Un giorno, dopo la consueta esibizione fatta per i suoi fans, dovette sembrare davvero troppo da sopportare a qualcuno degli altri cani meno dotati. Fu allora che Teddy si prese un morso. Un morso della dimensione di due pezzettini. Teddy confermò la sua reputazione di “cane in gamba”. Mosse su per la collina, lasciando una traccia di sangue e di materia che fuoriusciva da lui. Io sperai che nulla di quel suo dono speciale fosse perso lungo quella collina. Non volevo che Teddy si sgonfiasse e morisse, ma non volevo nemmeno che perdesse quel suo dono speciale e che continuasse a vivere. Egli non avrebbe sopportato di non essere più il cane in gamba che era. Ma questo non fu ciò che accadde.
Nonna accorse in fretta quando mi sentì gridare. Io non ero tranquilla. Lei valutò la situazione per un secondo e poi sollevò quell'orsacchiotto di cane al suo petto, non curandosi del fatto che stesse ancora versando sangue o forse anche quel suo dono speciale su di lei. Lo portò nel suo dominio privato, la cucina, adagiandolo gentilmente sopra alcuni asciugamani e cominciò a occuparsi di lui.
Io non sapevo come avesse intenzione di fare per rimettere tutto quel sangue e la materia dentro di lui e tenercela, perchè un pezzo di lui era andato perduto. Non sapevo dove fosse e non mi piaceva l'idea di andare a controllare la bocca di quel cagnaccio rissoso. Cercavo di pensare a cosa potesse fare da tampone. Pensai di prendere il tappo del lavandino, ma era troppo piccolo e così pensai di chiedere a nonna se ne avesse un paio, ma non mi piacque l'espressione dipinta sul suo volto. Non riusciva a credere ch'io volessi tamponare le ferite di Teddy in quella maniera. Mentre io mi scervellavo nonna andò in camera da letto e tornò con un ago e un rocchetto di filo nero. Io ne fui spaventata perché lei non faceva che dirmi che dovevo starmene tranquilla mentre lei pensava. E temevo che avesse intenzione di cucirmi la bocca per meglio riflettere su come aiutare Teddy.
Mentre io stavo per andare a nascondermi sotto il lavandino ella mi afferrò per il polso e mi strattonò indietro per un compito alla portata della mia mano. E grazie a Dio era la sola cosa che voleva. La mia mano per tenere fermo Teddy così che potesse usare ago e filo e cucire il pezzo mancante.
Teddy non fece tanto chiasso. Era un cane troppo in gamba, ma Nonna ne fece parecchio. Aveva le lacrime sul volto mentre non faceva che ripetere “Mi spiace tanto Teddy, tornerai a stare bene, avrai indietro il tuo dono speciale, te lo prometto”. Lei sapeva perchè stava piangendo, ma Teddy no e le credette.
Dopo aver molto pianto e assicuratasi che Teddy non perdesse più niente, lo spostò in un luogo più accogliente accanto ai fornelli. Quindi vuotò tutto il caffè in una grande pentola e aggiunse latte e zucchero e poi un bel pezzo di pane italiano... che io avevo sperato di mangiare. Mescolò tutto insieme e lo mise sul fuoco a riscaldare e poi lo versò in una grande ciotola proprio vicino alla testa di Teddy. Stavo giusto per chiederle se potevo averne un po', ma dopo un rapido sguardo all'ago e filo che ancora teneva in mano, pensai, meglio di no. Meglio andare a letto affamata che avere le labbra cucite insieme.
La parte più importante del cortile era la pianta della vite che stava tra la casa e il giardino. Essa pendeva sopra il marciapiede piena di grappoli. Non dei grappoli qualsiasi, ma dei grappoli grossi, rosa, che si spaccavano per quanto erano succosi, e che Nonna utilizzava per fare il suo vino speciale. Non ho mai capito perchè questi grappoli rosa non dessero un vino rosa, ma facevano un vino bianco (N.d.T. Sandy, telefonami che te lo spiego!). Forse dimenticava di metterci qualcosa. Per certo era spaventoso ed eccitante fare il vino. Noi dovevamo portare l'uva giù in cantina e metterla dentro una grande botte scura che stava allineata contro la parte più buia e più spaventosa della cantina. C'erano anche degli enormi caschi di banane verdi che pendevano dal soffitto. Sembrava non ci fosse mai abbastanza luce là sotto, e quando c'era veniva subito spenta lasciandomi tremante nella più totale oscurità. Ero solita fare le scale di corsa saltando 4 scalini per volta perchè sapevo che la Grande Mano si sarebbe infilata tra gli scalini e avrebbe afferrato le mie gambe.
(Continua...)


(Nonna Irene e il figlio Vincent davanti alla casa in Ellamond Street)

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