Thursday, September 30, 2010

GOODBYE BLACKY



" The distance that the dead have gone

Does not at first appear;

Their coming back seems possible

For many an ardent year.


And then, that we have followed them,

We more than half suspect,

So intimate have we become

With their dear retrospect."

Emily Dickinson


"La distanza a cui i morti sono andati/Dapprima non appare;/Il loro tornare sembra possibile/Per molto più di un ardente anno./
E poi, quello di averli seguiti,/Per noi più di un mezzo sospetto,/Tanto intimi siamo diventati/Della loro cara rimembranza."

A Marion DiAngelo (Blacky), terzo figlio di Umberto D'Angelo, che si è spento domenica 26 settembre 2010 e a tutti i nostri cari che non ci sono più.

Monday, September 20, 2010

L'assalto alla fattoria - quarta parte

“Lasciami!” gridò Filomena divincolandosi, con un urlo stridulo, dalla morsa di Giuseppe che la tratteneva nell’altra stanza. Oltrepassò l’uscio come un’ossessa, la camicia da notte stropicciata dal breve riposo, i lunghi capelli in disordine che ad ogni passo le ondeggiavano sul viso sconvolto; le mani erano protese in avanti, quelle mani robuste, avvezze alla fatica. Si curvò su Bernardo carezzandolo involontariamente con le ciocche come una Maddalena col suo Cristo “Nardù, mamma.. rispondimi”. Si sentì una voce allarmata che proveniva dall’altra stanza, la voce di una ragazza “Stanno salendo dal retro!” era Vittoria che in famiglia chiamavano Vevina. Giuseppe cercò il fucile con gli occhi, era lì adagiato sul pavimento, ancora carico. Lo afferrò, scansando Antonio, corse verso la finestra della sala e cominciò a sparare come una furia verso quelle ombre infernali; caricava e sparava con la forza della rabbia che aveva dentro, con le lacrime agli occhi che rendevano tremule quelle sagome. Caricava e sparava “Andatevene via, mostri, demoni!”

Abele e Argentina si erano nascosti sotto al letto, erano entrambi adolescenti. La porta della camera era rimasta aperta quando l’uomo aveva iniziato a sparare e alcuni colpi erano penetrati nella stanza, lacerando i vestiti appesi. L’armadio non c'era, gli abiti erano appesi a un’asta e coperti con un telo. Argentina singhiozzava mentre Abele la teneva stretta cercando di rassicurarla “Vedrai che ora se ne vanno” e intanto sperava invano di risvegliarsi da quell’orribile incubo.

Cor. era un giovane benestante, faceva di mestiere il mediatore. Tre volte a settimana si recava col suo calesse dalla fidanzata che abitava a Cavatassi, una frazione di Tortoreto. Quella sera si era attardato un po’; dopo la consueta visita aveva fatto una sosta all’osteria. Col tepore in corpo effuso dal vino, la frescura della notte si affrontava meglio. Dalla scorciatoia di Cavatassi svoltò verso quella di via della Quercia. La sua cavalla procedeva trottando sulla strada sterrata, scostando al passaggio le fronde degli alberi. Cor. sentiva le palpebre pesanti, forse per il quartino tracannato o per la cadenza monotona degli zoccoli. Poi dei colpi irruppero in quella monotonia e lui si rianimò. Spari che si susseguivano come una batteria di fuochi d’artificio. Se ne scorgevano i lampi a lato della strada, brillavano attraverso la vegetazione. Cor. spronò la cavalla colpendola ripetutamente con le redini, in preda al panico. L’animale galoppò convulsamente giù per il sentiero, spaventato anch’esso dai colpi di fucile che gli rimbombavano in petto. C’era una sparatoria in atto, i lampi delle fucilate illuminavano scorci di una casa, quella dei D’Angelo “Sono andati i briganti dai Crevì!” pensò Cor. Poi distolse lo sguardo da quella casa e si concentrò sulla sua salvezza. Continuò ad incitare la cavalla sollevandosi ad ogni sconquasso dalla panca del calesse. Raggiunse finalmente la strada principale e si dileguò.

Sunday, September 12, 2010

L'assalto alla fattoria - terza parte

Ed è ora che, come noi allora facemmo, a essa si approssimi il mio racconto, e possa la mia mano non tremare nell’accingermi a dire quanto poi accadde” (tratto da "Il nome della rosa" di Umberto Eco)

Antonio era immerso nei suoi pensieri quando un suono familiare lo fece trasalire “Bee bee”. Si sollevò dal letto poi rimase in attesa quasi trattenendo il respiro, girando la testa per intercettare meglio quel lamento. Si alzò nel buio aprì lo scuretto della finestra e scrutò all’esterno. “Antonio” bofonchiò Abele svegliandosi di soprassalto “Che fai?”.
Antonio: “Ho sentito belare gli agnelli, ci deve essere qualcuno sotto”
Abele: “Forse è entrato qualche animale nell’ovile”
Abele si mise seduto sul letto sentendosi ancora stordito dal sonno, osservò per un po’ il fratello muoversi nervosamente nella stanza, poi tastò con la mano il comodino in cerca del lume e l’accese, mentre Antonio si vestiva freneticamente.
“Resta qui” gli disse.
Abele non discusse gli ordini del fratello e si rimise sul letto con la schiena sollevata. Antonio uscì dalla stanza portando con sé il lume e lui lo vide scomparire nell’oscurità. Poi sentì una voce, era quella di sua madre Filomena che si era levata e compariva sull’uscio della sua camera con i capelli sciolti, dietro di lei la giovane Argentina. Abele raggiunse la sorella ed entrambi videro Antonio e sua madre confabulare, mentre passavano nell’altra stanza. Dalla camera attigua anche Giuseppe era uscito in calzoni di lana e dopo aver interrogato il fratello si era messo ad osservare attraverso la finestra cercando di distinguere qualcosa nell’oscurità. Antonio aveva preso dalla cassapanca il fucile era piegato su di esso e lo stava caricando. Poi si diresse risoluto verso l’uscio con il fucile a tracolla, sganciò la sbarra di ferro che puntellava il portone e l’aprì. Stava per uscire quando qualcosa gli si oppose davanti; era un uomo col volto coperto, gli occhi stralunati quasi aspettasse qualcun' altro; respirava in modo concitato, il bavaglio risucchiato ad ogni respiro; nella mano brandiva un oggetto che riluceva al bagliore della luna: era una pistola. Gliela stava puntando contro, l’afferrava saldamente con la mano villosa e gliela puntava contro. Farfugliò qualcosa, poi roteò gli occhi verso il fucile. Antonio s’abbassò d’istinto e l’uomo esplose un colpo. Poi un altro mentre egli lo schivava ancora; sentì la porta della sala aprirsi e qualcuno correre verso di lui. Era Bernardo suo fratello che si precipitava in suo aiuto; l’uomo sparò ancora, un colpo sordo, un colpo attutito dal corpo del ragazzo. Bernardo cadde a terra. Antonio afferrò la mano villosa di quell’essere mostruoso emerso dalla notte, lottò tenendogli la mano sollevata mentre l’uomo continuava a sparare. Nella sua mente aveva con incredibile lucidità contato i colpi esplosi. Un altro colpo era il quinto, era l’ultimo. Allora afferrò il fucile, che gli penzolava sul braccio, per le canne e colpì usandolo come una mazza, come un piccone, come quando lavorava sulla tracca. L’uomo barcollò mentre dappresso un complice armato accorreva. Con formidabile impeto Antonio serrò il portone e corse da Bernardo che rantolava sul pavimento in una chiazza di sangue.

Sunday, September 5, 2010

L'assalto alla fattoria - seconda parte


Fer. stava rincasando, procedeva a piedi lungo la strada buia, abitava in una casetta in mattoni poco distante da lì. Notò degli uomini all’imbocco della salita che portava ai D’Angelo, ne distingueva solo le sagome; gli uomini si accorsero di lui e si ritrassero, sparpagliandosi un poco, poi rimasero in attesa. Fer. si ricordò che c’erano delle “fantelle”, ragazze in età da marito dai Crevì e pensò che forse c’era in corso una festa. Osservò ma non scorgeva nessuna luce, tutto era spento in quella casa. Diede una fugace occhiata a quelle ombre poi un brivido di paura gli corse lungo la schiena e proseguì senza indugiare, verso casa.

“Tu resta qui, devi fare da palo” disse Mur. a suo figlio quindicenne “Papà, che faccio se torna quell’uomo?” Mur: “Nasconditi dietro a questi cespugli, da qui puoi controllare se qualcuno imbocca la strada. Se dovesse tornare con le guardie, corri ad avvisarci”. Il ragazzo si accovacciò dietro ai cespugli, tremante non sapeva se per il freddo o per la scellerata impresa in cui suo padre l’ aveva coinvolto “Ci ciué Ci ciué”  “La civetta, proprio stasera quell’uccellaccio deve spargere per l’aria la sua sventura”.

Antonio stava disteso sul letto con gli occhi spalancati, non riusciva a prendere sonno; aveva sentito in lontananza il verso della civetta ma lui aveva superato certe superstizioni contadine. Era solo uno dei suoni che la notte portava con sé. Eppure aveva addosso un' indefinita angoscia che gli opprimeva il petto celandogli il respiro; forse era il peso delle responsabilità cui si era sobbarcato tornando in Italia, sua madre riponeva tante aspettative in lui. A tratti il pensiero volava oltreoceano, galoppava sui flutti e tornava a suo fratello “ Umberto si sposa, devo farmi anch’io una famiglia” pensò.

“Circondiamo la casa, dobbiamo impedire che qualcuno scappi e dia l’allarme. Io mi apposto al portone” bisbigliò il marito della maestra. Il piano prevedeva di introdursi in casa dalla finestra della sala che era ampia e si poteva facilmente forzare. Bastava rompere il vetro e sganciare lo scuretto chiuso. Nel versante est, sotto la finestra della sala, c’erano le baracche degli animali, polli, conigli, agnelli.  L' intento dei ladri era quello di salire su quelle baracche per raggiungere la finestra; se ci fosse stato bisogno di usare una scala a pioli Macc., il lavorante del frantoio, sapeva dove trovarla. 
Il marito della maestra salì silenziosamente la scalinata, aveva calzato un cappuccio che gli nascondeva il volto lasciandogli scoperti solo gli occhi per agire al chiarore della notte. Con sé aveva una pistola, un’arma che lo faceva sentire forte, potente. Salito sulla loggia aspettava i suoi complici. Aveva esaminato il portone nelle molte occasioni in cui era stato ospite dai Crevì ma gli era parso troppo robusto da poter forzare. Era in preda all’eccitazione, il cappuccio lo faceva sudare, che furbo era stato a congegnare un piano siffatto, quei bifolchi non avrebbero mai sospettato di lui, del loro "rispettabile" ospite. La bella vita lo attendeva, era ansioso di finire tutto in fretta, l’eccitazione era tale che il respiro si stava facendo affannoso e concitato, doveva calmarsi altrimenti l’avrebbero sentito.